Cicerone, De Finibus: Libro 02; 01-05, pag 2

Cicerone, De Finibus: Libro 02; 01-05

Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 02; 01-05
[12] Quid enim necesse est, tamquam meretricem in matronarum coetum, sic voluptatem in virtutum concilium adducere

Invidiosum nomen est, infame, suspectum

Itaque hoc frequenter dici solet a vobis, non intellegere nos, quam dicat Epicurus voluptatem

Quod quidem mihi si quando dictum est—est autem dictum non parum saepe—, etsi satis clemens sum in disputando, tamen interdum soleo subirasci

Egone non intellego, quid sit edonè Graece, Latine voluptas

Utram tandem linguam nescio

Deinde qui fit, ut ego nesciam, sciant omnes, quicumque Epicurei esse voluerunt

Quod vestri quidem vel optime disputant, nihil opus esse eum, qui philosophus futurus sit, scire litteras

Itaque ut maiores nostri ab aratro adduxerunt Cincinnatum illum, ut dictator esset, sic vos de pagis omnibus colligitis bonos illos quidem viros, sed certe non pereruditos
[12] Che bisogno c’è di far entrare il piacere nel consesso delle virtù come una prostituta in una riunione di signore per bene

Il nome è odioso, malfamato, sospetto

Per questo voi solete dire spesso che noi non comprendiamo quale piacere intenda Epicuro

E se mi càpita di sentirmi fare tale osservazione (e mi è stata fatta più di una volta), anche se sono abbastanza indulgente nella discussione, talora tuttavia me ne risento

Io non capire che significa edoné in greco e voluptas in latino

Quale mai delle due lingue non conosco

E poi, come va che io non lo so, e lo sanno tutti quelli che han voluto essere Epicurei

D’altra parte sono appunto i vostri a sostenere con ottimi argomenti che non è affatto necessaria una cultura letteraria per chi diveuterà filosofo

Pertanto, come i nostri antenati trassero dall’aratro il famoso Cincinnato per farlo dittatore, cosi voi da tutti i villaggi raccogliete quelle persone, brava gente si, ma non certo molto istruita
[13] Ergo illi intellegunt quid Epicurus dicat, ego non intellego

Ut scias me intellegere, primum idem esse dico voluptatem, quod ille edonèn

Et quidem saepe quaerimus verbum Latinum par Graeco et quod idem valeat; hic nihil fuit, quod quaereremus

Nullum inveniri verbum potest quod magis idem declaret Latine, quod Graece, quam declarat voluptas

Huic verbo omnes, qui ubique sunt, qui Latine sciunt, duas res subiciunt, laetitiam in animo, commotionem suavem iucunditatis in corpore

Nam et ille apud Trabeam 'voluptatem animi nimiam' laetitiam dicit eandem, quam ille Caecilianus, qui 'omnibus laetitiis laetum' esse se narrat
[13] Dunque quelli capiscono che cosa dice Epicuro ed io no

Per farti sapere che io capisco, anzitutto dico che valufttas equivale al termine hedoné da lui usato

Appunto cerchiamo spesso un termine latino corrispondente a quello greco e che gli sia equivalente: qui non c’è stato nulla da cercare

Non si può trovare nessuna parola che esprima in latino l’equivalente del greco meglio che voluptas

A questa parola tutte le persone al mondo che sanno il latino dànno due significati: letizia, quando è riferita all’anima; impressione dolce di piacevolezza, quando è riferita al corpo

E difatti quel personaggio di Trabea parlando di “eccessivo piacere dell’anima” intende la medesima letizia di quell’altro di Cecilio che dice di essere “lieto di tutte le letizie “
Sed hoc interest, quod voluptas dicitur etiam in animo—vitiosa res, ut Stoici putant, qui eam sic definiunt: sublationem animi sine ratione opinantis se magno bono frui—, non dicitur laetitia nec gaudium in corpore

[14] In eo autem voluptas omnium Latine loquentium more ponitur, cum percipitur ea, quae sensum aliquem moveat, iucunditas
Ma c’è questa differenza: si dice piacere anche per l’anima (ed è un vizio secondo gli Stoici, che ne dànno la seguente definizione: una elevazione irrazionale dell’anima che crede di fruire di un grande bene) , ma non si dice letizia nd gioia per il corpo

[14]Per quest’ultimo, nell’uso comune di tutti quelli che parlano latino, si impiega il tennine ‘piacere’, quando si ha una percezione piacevole che impressiona qualche senso

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Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 03; 16-20

Hanc quoque iucunditatem, si vis, transfer in animum; iuvare enim in utroque dicitur, ex eoque iucundum, modo intellegas inter illum, qui dicat: 'Tanta laetitia auctus sum, ut nihil constet', et eum, qui: 'Nunc demum mihi animus ardet', quorum alter laetitia gestiat, alter dolore crucietur, esse illum medium: 'Quamquam haec inter nos nuper notitia admodum est', qui nec laetetur nec angatur, itemque inter eum, qui potiatur corporis expetitis voluptatibus, et eum, qui crucietur summis doloribus, esse eum, qui utroque careat

[5, 15] Satisne igitur videor vim verborum tenere, an sum etiam nunc vel Graece loqui vel Latine docendus

Et tamen vide, ne, si ego non intellegam quid Epicurus loquatur, cum Graece, ut videor, luculenter sciam, sit aliqua culpa eius, qui ita loquatur, ut non intellegatur
Trasferisci, se vuoi, anche questa percezione piacevole ovvero ‘giocondità’ all’anima (per entrambi infatti si usa l’espressione ‘ giovare’, e di qui deriva ‘ giocondo ‘), purché ti renda conto che fra chi dice: ora appunto il mio animo arde , di cui l’uno esulta di letizia e l’altro è tormentato dal dolore, c’è lo stato intermedio di chi dice: per quanto questa nostra conoscenza sia molto recente , il quale nè si allieta nè si cruccia,e parimenti fra chi ottiene i bramati piaceri del corpo e chi si tormenta per estremi dolori c’è chi è fuori da entrambe le condizioni

[5, 15] Ti par dunque ch’io capisca abbastanza il valore delle parole o devo ancora imparare a parlar greco o latino

Tuttavia, se io non capisco che vuoi dire Epicuro, visto che so benissimo il greco, bada che non ne abbia qualche colpa lui, che parla in modo da non essere capito
Quod duobus modis sine reprehensione fit, si aut de industria facias, ut Heraclitus, 'cognomento qui skoteinòs perhibetur, quia de natura nimis obscure memoravit', aut cum rerum obscuritas, non verborum, facit ut non intellegatur oratio, qualis est in Timaeo Platonis

Epicurus autem, ut opinor, nec non vult, si possit, plane et aperte loqui, nec de re obscura, ut physici, aut artificiosa, ut mathematici, sed de illustri et facili et iam in vulgus pervagata loquitur

Quamquam non negatis nos intellegere quid sit voluptas, sed quid ille dicat

E quo efficitur, non ut nos non intellegamus quae vis sit istius verbi, sed ut ille suo more loquatur, nostrum neglegat
Ciò si può verificare, senza dar luogo a critiche, in due modi: o lo si fa a bella posta, come Eraclito’ “che vien ricordato con il soprannome di skoteinòs perché con eccessiva oscurità trattò della natura “, oppure l’oscurità del soggetto, non delle parole, rende incomprensibile il discorso, come càpita nel Tirneo di Platone

Ma nel caso di Epicuro, non è, credo, ch’egli non voglia, potendo, parlare in modo semplice e chiaro, e neppure che parli di un argomento oscuro, come i naturalisti, o complicato, come i matematici: egli tratta invece un soggetto manifesto, facile, di conoscenza ormai comune

Per quanto, voi non dite che noi non comprendiamo che cosa è il piacere, ma che cosa dice lui

Ne consegue che non siamo noi a non capire il valore di codesta parola, ma è lui che parla alla sua maniera, trascurando la nostra

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[16] Si enim idem dicit, quod Hieronymus, qui censet summum bonum esse sine ulla molestia vivere, cur mavult dicere voluptatem quam vacuitatem doloris, ut ille facit, qui quid dicat intellegit

Sin autem voluptatem putat adiungendam eam, quae sit in motu—sic enim appellat hanc dulcem: 'in motu', illam nihil dolentis 'in stabilitate'—, quid tendit

Cum efficere non possit ut cuiquam, qui ipse sibi notus sit, hoc est qui suam naturam sensumque perspexerit, vacuitas doloris et voluptas idem esse videatur

Hoc est vim afferre, Torquate, sensibus, extorquere ex animis cognitiones verborum, quibus inbuti sumus

Quis enim est, qui non videat haec esse in natura rerum tria
[16] Se la sua asserzione equivale a quella di leronimo, che fa consistere il sommo bene nel vivere senza alcun dispiacere, perché preferisce dire piacere piuttosto che assenza di dolore, come fa quello, che capisce cosa dice

Se invece ritiene che si debba aggiungere quel piacere che è in movimento (così infatti egli chiama quello che dà un’impressione piacevole, ‘in movimento’; mentre l’altro, di chi non sente dolore, ‘in posizione stabile ‘), a che mira

Giacché non può ottenere il risultato che uno che conosca se stesso, vale a dire abbia indagato sulla propria natura e sensibilità, si convinca dell’identità fra assenza di dolore e piacere

Questo, o Torquato, si chiama far violenza ai sensi, strappare dall’anima la nozione che abbiamo delle parole

Chi v’è infatti che non vede che vi sono in natura questi tre stati
Unum, cum in voluptate sumus, alterum, cum in dolore, tertium hoc, in quo nunc equidem sum, credo item vos, nec in dolore nec in voluptate; ut in voluptate sit, qui epuletur, in dolore, qui torqueatur

Tu autem inter haec tantam multitudinem hominum interiectam non vides nec laetantium nec dolentium

[17] Non prorsus, inquit, omnisque, qui sine dolore sint, in voluptate, et ea quidem summa, esse dico

Ergo in eadem voluptate eum, qui alteri misceat mulsum ipse non sitiens, et eum, qui illud sitiens bibat
Primo: provar piacere; secondo: provar dolore; terzo, in cui mi trovo io ora e credo pure voi: non provare né dolore nè piacere; cosicchè, prova piacere chi banchetta, dolorechi è torturato

E tu non vedi che fra questi due estremi è frapposta sì grande folla di uomini che né gioiscono né si dolgono

[17] — No davvero, e sostengo che chiunque è privo di dolore prova piacere, e il più grande dei piaceri

— Quindi prova il medesimo piacere chi mesce ad un altro vino melato senza aver sete egli stesso, e chi lo beve avendo sete

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