Cicerone, De Finibus: Libro 02; 01-05

Cicerone, De Finibus: Libro 02; 01-05

Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 02; 01-05

[1, 1] Hic cum uterque me intueretur seseque ad audiendum significarent paratos:- Primum- inquam- deprecor, ne me tamquam philosophum putetis scholam vobis aliquam explicaturum, quod ne in ipsis quidem philosophis magnopere umquam probavi

Quando enim Socrates, qui parens philosophiae iure dici potest, quicquam tale fecit

Eorum erat iste mos qui tum sophistae nominabantur, quorum e numero primus est ausus Leontinus Gorgias in conventu poscere quaestionem, id est iubere dicere, qua de re quis vellet audire

Audax negotium, dicerem impudens, nisi hoc institutum postea translatum ad philosophos nostros esset

[2] Sed et illum, quem nominavi, et ceteros sophistas, ut e Platone intellegi potest, lusos videmus a Socrate
[1, 1] A questo punto entrambi mi guardavano facendomi capire che erano pronti ad ascoltare; ed io dissi: — Anzitutto vi prego di non considerarmi un filosofo che vi possa tenere una lezione, cosa che non ho mai approvato wan che neppure negli stessi filosofi

Quando mai Socrate, che ben a ragione si può dire il padre della filosofia, ha fatto qualcosa di simile

Questa era l’usanza di quelli che allora prendevano nome di sofisti, fra cui Gorgia di Lentini fu il primo ad osare in una riunione chiedere un problema, cioè invitare a dire l’argomento su cui uno volesse sentirlo discutere

Faccenda ardita, direi sfacciata, se tale principio non fosse in séguito passato ai nostri filosofi

[2] Ma sia quello che ho citato sia gli altri sofisti, come si può comprendere da Platone, ci risulta che furono messi in ridicolo da Socrate
Is enim percontando atque interrogando elicere solebat eorum opiniones, quibuscum disserebat, ut ad ea, quae ii respondissent, si quid videretur, diceret

Qui mos cum a posterioribus non esset retentus, Arcesilas eum revocavit instituitque ut ii, qui se audire vellent, non de se quaererent, sed ipsi dicerent, quid sentirent; quod cum dixissent, ille contra

Sed eum qui audiebant, quoad poterant, defendebant sententiam suam

Apud ceteros autem philosophos, qui quaesivit aliquid, tacet; quod quidem iam fit etiam in Academia

Ubi enim is, qui audire vult, ita dixit: 'Voluptas mihi videtur esse summum bonum', perpetua oratione contra disputatur, ut facile intellegi possit eos, qui aliquid sibi videri dicant, non ipsos in ea sententia esse, sed audire velle contraria

[3] Nos commodius agimus
Questi infatti soleva farsi dire con indagini e domande le opinioni di coloro con cui stava discorrendo, in modo da contrapporre alle loro risposte le osservazioni che gli sembravano opportune

Questa usanza non fu mantenuta dai filosofi che seguirono; Arcesila la richiamò in vigore e stabili che quelli che volevano ascoltarlo non gli facessero domande ma esponessero essi stessi la loro opinione: dopo che l’avevano fatto, egli controbatteva

Ma quelli che lo ascoltavano, finché potevano, difendevano la loro opinione

Nelle altre scuole filosofiche invece chi ha posto una questione tace; e così avviene ormai anche nell’Accademia

Quando chi vuoi ascoltare ha detto: A me sembra che il piacere sia il sommo bene, gli si ribatte con un discorso continuo; cosicché si può facilmente comprendere che chi esprime un suo punto di vista non segue neppur lui tale parere ma vuol ascoltare il contrario

[3] Noi procediamo in maniera più conveniente
Non enim solum Torquatus dixit quid sentiret, sed etiam cur

Ego autem arbitror, quamquam admodum delectatus sum eius oratione perpetua, tamen commodius, cum in rebus singulis insistas et intellegas quid quisque concedat, quid abnuat, ex rebus concessis concludi quod velis et ad exitum perveniri

Cum enim fertur quasi torrens oratio, quamvis multa cuiusque modi rapiat, nihil tamen teneas, nihil apprehendas, nusquam orationem rapidam coerceas

Omnis autem in quaerendo, quae via quadam et ratione habetur, oratio praescribere primum debet ut quibusdam in formulis ea res agetur, ut, inter quos disseritur, conveniat quid sit id, de quo disseratur

[2, 4] Hoc positum in Phaedro a Platone probavit Epicurus sensitque in omni disputatione id fieri oportere

Sed quod proximum fuit non vidit
Infatti Torquato non solo ha detto la sua opinione, ma ne ha spiegato anche il motivo

D’altra parte io penso che, quantunque il suo discorso continuo mi sia piaciuto assai, tuttavia sia più opportuno, soffennandosi sui singoli punti e rendendosi conto di quanto ciascuno ammette o respinge, trarre dalle ammissioni le conclusioni desiderate e giungere al risultato

Giacché, quando il discorso procede come un torrente, benché trascini molti argomenti di ogni specie, tuttavia nulla si può ritenere, nulla afferrare, in nessun punto rallentare il rapido svolgimento del discorso

Nella ricerca, ogni discorso tenuto con un certo metodo e raziocinio deve anzitutto fissare come in certe formule giudiziarie“sarà trattato tale argomento “, allo scopo che fra i partecipanti alla discussione vi sia accordo nel definire l’oggetto della medesima

[2, 4] Questo sistema fu stabilito da Platone nel Fedro ed Epicuro lo approvò, e fu d’avviso che occorresse far così in ogni discussione

Ma non ne scorse l’immediata conseguenza

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Cicerone, De Finibus: Libro 03; 16-20
Cicerone, De Finibus: Libro 03; 16-20

Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 03; 16-20

Negat enim definiri rem placere, sine quo fieri interdum non potest, ut inter eos, qui ambigunt, conveniat quid sit id, de quo agatur, velut in hoc ipso, de quo nunc disputamus

Quaerimus enim finem bonorum

Possumusne hic scire qualis sit, nisi contulerimus inter nos, cum finem bonorum dixerimus, quid finis, quid etiam sit ipsum bonum

[5] Atqui haec patefactio quasi rerum opertarum, cum quid quidque sit aperitur, definitio est

Qua tu etiam inprudens utebare non numquam

Nam hunc ipsum sive finem sive extremum sive ultimum definiebas id esse, quo omnia, quae recte fierent, referrentur neque id ipsum usquam referretur

Praeclare hoc quidem
Afferma infatti che non gli piacciono le definizioni; ma senza di esse non è possibile talvolta addivenire fra contendenti ad un accordo sull’oggetto della trattazione, come è proprio il caso della nostra presente discussione

Noi infatti ricerchiamo il termine estremo del bene

Possiamo sapere qual è se non ci scambiamo le nostre idee per determinare che cosa intendiamo, dicendo termine estremo del bene, per ‘termine estremo’ ed anche per bene’

[5] Eppure questa rivelazione, per così dire, di oggetti nascosti, quando si discopre l’essenza di una cosa, è una definizione

E tu ne hai usato talvolta, pur senza avvedertene

Infatti proprio di questo termine, ovvero estremo o ultimo punto, tu davi la seguente definizione; è ciò a cui si riferiscono tutte le azioni rette ed esso a sua volta a nient’altro si riferisce

Ed è un’ottima definizione
Bonum ipsum etiam quid esset, fortasse, si opus fuisset, definisses aut quod esset natura adpetendum aut quod prodesset aut quod iuvaret aut quod liberet modo

Nunc idem, nisi molestum est, quoniam tibi non omnino displicet definire et id facis, cum vis, velim definias quid sit voluptas, de quo omnis haec quaestio est

[6] Quis, quaeso, inquit, est, qui quid sit voluptas nesciat, aut qui, quo magis id intellegat, definitionem aliquam desideret

Me ipsum esse dicerem, inquam, nisi mihi viderer habere bene cognitam voluptatem et satis firme conceptam animo atque comprehensam

Nunc autem dico ipsum Epicurum nescire et in eo nutare eumque, qui crebro dicat diligenter oportere exprimi quae vis subiecta sit vocibus, non intellegere interdum, quid sonet haec vox voluptatis, id est quae res huic voci subiciatur
E se fosse stato necessario, forse avresti dato anche la definizione del bene stesso, come ciò che si deve desiderare per natura o che è vantaggioso o che giova o anche soltanto che è gradito

Ora, se non ti rincresce, dato che non ti spiace proprio del tutto dar definizioni e, quando ne hai voglia, lo fai, vorrei che definissi il piacere, su cui verte tutto questo problema

[6] — Ma chi c’è, per favore, che non sa che cosa è il piacere o che sente il bisogno di una definizione per capirlo più chiaramente

Ci sono io, direi, se non mi sembrasse di avere un concetto ben chiaro del piacere e abbastanza consolidato nel mio spirito e assimilato

Ora invece dico che lo stesso Epicuro non lo sa e a questo proposito è vacillante, e proprio lui che afferma spesso a necessità di precisare bene il valore intrinseco delle paroletalora non capisce il significato di questa parola piacere’, cioè il concetto che questa parola suggerisce

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Cicerone, De Finibus: Libro 04; 06-10

Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 04; 06-10

[3]Tum ille ridens: Hoc vero, inquit, optimum, ut is, qui finem rerum expetendarum voluptatem esse dicat, id extremum, id ultimum bonorum, id ipsum quid et quale sit, nesciat

Atqui, inquam, aut Epicurus quid sit voluptas aut omnes mortales, qui ubique sunt, nesciunt

Quonam, inquit, modo

Quia voluptatem hanc esse sentiunt omnes, quam sensus accipiens movetur et iucunditate quadam perfunditur

[7] Quid ergo

Istam voluptatem, inquit, Epicurus ignorat

Non semper, inquam; nam interdum nimis etiam novit, quippe qui testificetur ne intellegere quidem se posse ubi sit aut quod sit ullum bonum praeter illud, quod cibo et potione et aurium delectatione et obscena voluptate capiatur

An haec ab eo non dicuntur

Quasi vero me pudeat, inquit, istorum, aut non possim quem ad modum ea dicantur ostendere
[3] Ed egli ridendo: — Questa è davvero carina: colui che ritiene il piacere come termine estremo di ciò che si deve desiderare, ignora l’essenza stessa e la qualità di questo estremo, di questo ultimo fra i beni

Eppure, o Epicuro non sa che cosa è il piacere, oppure non lo sanno tutti gli uomini in tutto il mondo

E in che modo

Perché tutti intendono per piacere quello che alla percezione impressiona i sensi e li pervade di una certa allegria

[7] Ebbene

Epicuro ignora questo aspetto del piacere

Non sempre; talvolta lo conosce anche troppo, in quanto assicura di non poter capire dove sia o quale sia un bene all’in- fuori di quello che è dato dal cibo e dalla bevanda e dal diletto delle orecchie e dal piacere osceno

Non dice forse questo

Come se io mi vergognassi di ciò o non potessi mostrare il modo in cui lo dice
Ego vero non dubito, inquam, quin facile possis, nec est quod te pudeat sapienti adsentiri, qui se unus, quod sciam, sapientem profiteri sit ausus

Nam Metrodorum non puto ipsum professum, sed, cum appellaretur ab Epicuro, repudiare tantum beneficium noluisse; septem autem illi non suo, sed populorum suffragio omnium nominati sunt

[8] Verum hoc loco sumo verbis his eandem certe vim voluptatis Epicurum nosse quam ceteros

Omnes enim iucundum motum, quo sensus hilaretur Graece edonèn, Latine voluptatem vocant

Quid est igitur, inquit, quod requiras

Dicam, inquam, et quidem discendi causa magis, quam quo te aut Epicurum reprehensum velim

Ego quoque, inquit, didicerim libentius si quid attuleris, quam te reprehenderim
Ma io non dubito che tu lo possa con facilità, e non c’è ragione per vergognarsi di andare d’accordo con un sapiente, che è l’unico, che io sappia, ad aver osato di proclamarsi sapiente

Non credo infatti che Metrodoro abbia fatto personalmente questa dichiarazione, ma ricevendo tale appellativo da Epicuro non volle rifiutare sì gran beneficio: i famosi sette però non si autodefinirono sapienti, ma furono così chiamati dall’approvazione unanime delle genti

[8] In quanto a questo punto, desumo da queste parole che Epicuro certamente diede al piacere lo stesso valore che tutti gli altri

Tutti infatti chiamano in greco hedoné, in latino voluptas quella piacevole impressione che allieta i sensi

E allora che hai da indagare

Te lo dirò, e lo farò più per imparare che per la voglia di criticare te o Epicuro

Anch’io son più propenso ad imparare, se porti qualche contributo, che a criticarti

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Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 03; 01-05

Tenesne igitur, inquam, Hieronymus Rhodius quid dicat esse summum bonum, quo putet omnia referri oportere

Teneo, inquit, finem illi videri nihil dolere

Quid

Idem iste, inquam, de voluptate quid sentit

[9] Negat esse eam, inquit, propter se expetendam

Aliud igitur esse censet gaudere, aliud non dolere

Et quidem, inquit, vehementer errat; nam, ut paulo ante docui, augendae voluptatis finis est doloris omnis amotio

Non dolere, inquam, istud quam vim habeat postea videro; aliam vero vim voluptatis esse, aliam nihil dolendi, nisi valde pertinax fueris, concedas necesse est

Atqui reperies, inquit, in hoc quidem pertinacem; dici enim nihil potest verius

Estne, quaeso, inquam, sitienti in bibendo voluptas

Quis istud possit, inquit, negare

Eademne, quae restincta siti
Ricordi la definizione che leronimo di Rodi dà del sommo bene, a cui ritiene si debba riferire ogni cosa

Sì; secondo lui il termine estremo è l’assenza del dolore

Ebbene

E sempre il medesimo, che pensa del piacere

[9] Dice che non è desiderabile per se stesso

Dunque ritiene che altro è provar gioia, altro non sentir dolore

E sbaglia di grosso, perché, come ho dimostrato prima , l’estremo termine di incremento per il piacere è la rimozione di ogni dolore

Vedrò in seguito che valore abbia l’espressione ‘non sentir dolore’; però devi necessariamente ammettere, a meno che tu sia molto ostinato, che altro è il valore del piacere, altro quello del ‘non sentir dolore’

Eppure a questo proposito mi troverai ostinato;secondo me non si può dir nulla di più vero

Per favore, c’è un piacere nel bere quando si ha sete

E chi potrebbe negano

È uguale a quello che si prova una volta calmata la sete
Immo alio genere; restincta enim sitis stabilitatem voluptatis habet, inquit, illa autem voluptas ipsius restinctionis in motu est

Cur igitur, inquam, res tam dissimiles eodem nomine appellas

[10] Quid paulo ante, inquit, dixerim nonne meministi, cum omnis dolor detractus esset, variari, non augeri voluptatem

Memini vero, inquam; sed tu istuc dixti bene Latine, parum plane

Varietas enim Latinum verbum est, idque proprie quidem in disparibus coloribus dicitur, sed transfertur in multa disparia: varium poema, varia oratio, varii mores, varia fortuna, voluptas etiam varia dici solet, cum percipitur e multis dissimilibus rebus dissimilis efficientibus voluptates
No, è di altro genere: una volta calmata la sete si ha un piacere stabile, mentre nell’atto stesso di calmarla si ha un piacere in movimento

Perché mai chiami con lo stesso nome cose tanto diverse

[10] Non ricordi cosa ho detto prima, quando si è soppresso ogni dolore, il piacere vana, ma non cresce

Me ne ricordo sì; ma le tue parole van bene come latino, però son poco chiare

Varietà è una parola latina, e si usa propriamente per la diversità dei colori, ma in senso traslato per molte cose diverse; di solito si dice vario ‘ della poesia, del discorso, della condotta, della fortuna, e anche del piacere, quando la sensazione risulta da molti elementi diversi che producono piaceri diversi

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Latino: dall'autore Cicerone, opera De Finibus parte Libro 04; 26-28

Eam si varietatem diceres, intellegerem, ut etiam non dicente te intellego; ista varietas quae sit non satis perspicio, quod ais, cum dolore careamus, tum in summa voluptate nos esse, cum autem vescamur iis rebus, quae dulcem motum afferant sensibus, tum esse in motu voluptatem, qui faciat varietatem voluptatum, sed non augeri illam non dolendi voluptatem, quam cur voluptatem appelles nescio

[4, 11] An potest, inquit ille, quicquam esse suavius quam nihil dolere

Immo sit sane nihil melius, inquam—nondum enim id quaero—, num propterea idem voluptas est, quod, ut ita dicam, indolentia

Plane idem, inquit, et maxima quidem, qua fieri nulla maior potest

Quid dubitas igitur, inquam, summo bono a te ita constituto, ut id totum in non dolendo sit, id tenere unum, id tueri, id defendere
Se tu intendessi questo per varietà, capirei, come capisco anche se non lo dici; qual sia per altro codesta varietà non mi riesce chiaro, poiché affermi che proviamo il sommo piacere quando siamo privi di dolore, e quando invece usufruiamo di ciò che reca ai sensi una dolce impressione, si tratta di un piacere in movimento, che produce varietà nel piacere ma non aumenta quel piacere del non provar dolore che non so perché chiami piacere

[4, 11] — Ci può forse essere qualcosa più dolce che il non provar affatto dolore

E va bene, non c’è nulla di meglio (non mi pongo ancora tale questione): forse per questo il piacere è identico, per così dire, al non-dolore’

Sì, completamente, e si tratta del massimo piacere a cui nessun altro può essere superiore

E che aspetti allora, visto che hai stabilito il sommo bene in modo da farlo consistere tutto nel non provar dolore, ad attenerti a questo solo, a sorvegliarlo, a difenderlo
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