Livio, Ab urbe condita: Libro 01, 16-30

Livio, Ab urbe condita: Libro 01, 16-30

Latino: dall'autore Livio, opera Ab urbe condita parte Libro 01, 16-30

[16] His immortalibus editis operibus cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspectum eius contioni abstulerit; nec deinde in terris Romulus fuit

Romana pubes sedato tandem pavore postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi vacuam sedem regiam vidit, etsi satis credebat patribus qui proximi steterant sublimem raptum procella, tamen velut orbitatis metu icta maestum aliquamdiu silentium obtinuit

Deinde a paucis initio facto, deum deo natum, regem parentemque urbis Romanae saluere universi Romulum iubent; pacem precibus ecunt, uti volens propitius suam semper sospitet progeniem
[16] Portati a termine questi atti destinati alla posterità, un giorno, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla palude Capra, in Campo Marzio, scoppiò all'improvviso un temporale violentissimo con gran fragore di tuoni ed egli fu avvolto da una nuvola così compatta che scomparve alla vista dei suoi soldati; da quel momento in poi, Romolo non riapparve più sulla terra

I giovani romani, appena rividero la luce di quel bel giorno di sole dopo l'imprevisto della tempesta, alla fine si ripresero dallo spavento; ma quando si resero conto che la sedia del re era vuota, pur fidandosi dei senatori che, seduti accanto a lui, sostenevano di averlo visto trascinato verso l'alto dalla tempesta, ciò nonostante sprofondarono per qualche attimo in un silenzio di tomba, come invasi dal terrore di esser rimasti orfani

Poi, seguendo l'esempio di alcuni di essi, tutti in coro osannarono Romolo proclamandolo dio figlio di un dio, e re e padre di Roma, con preghiere ne implorano la benevola assistenza e la continua protezione per i loro figli
Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent; manavit enim haec quoque sed perobscura fama; illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit

Et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur fides

Namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa patribus, gravis, ut traditur, quamuis magnae rei auctor in contionem prodit

'Romulus' inquit, 'Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce caelo repente delapsus se mihi obuium dedit
Allora, credo, ci fu anche chi in segreto sosteneva la tesi che i senatori avessero fatto a pezzi il re con le loro stesse mani; la notizia si diffuse, anche se in termini non molto chiari ma fu resa nota l'altra versione, sia per l'ammirazione nei confronti di una simile figura, sia per la delicatezza della situazione

Si dice anche che ad aumentarne la credibilità contribuì l'astuta trovata di un singolo personaggio

Questi - un certo Giulio Proculo -, mentre la città era in lutto per la perdita del re e nutriva una certa ostilità nei confronti del senato, con tono grave, come se fosse stato testimone di un grande evento, si rivolse in questi termini all'assemblea

Stamattina, o Quiriti, alle prime luci dell'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo ed è apparso alla mia vista
Cum perfusus horrore venerabundusque adstitissem petens precibus ut contra intueri fas esset, ''Abi, nuntia'' inquit ''Romanis, caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse

'Haec' inquit 'locutus sublimis abiit'

Mirum quantum illi viro nuntianti haec fides fuerit, quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque facta fide immortalitatis lenitum sit

[17] Patrum interim animos certamen regni ac cupido versabat; necdum ad singulos, quia nemo magnopere eminebat in novo populo, pervenerat: factionibus inter ordines certabatur
Io, in un misto di totale confusione e rispetto, l'ho pregato di accordarmi il permesso di guardarlo in faccia e lui mi ha risposto: Va' e annuncia ai Romani che la volontà degli dèi celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo; quindi si impratichiscano nell'arte militare e sappiano e tramandino ai loro figli che nessuna umana potenza è in grado di resistere alle armi romane

Detto questo, egli concluse, è scomparso in cielo

incredibile quanto si prestò fede al racconto di quell'uomo e quanto giovò a placare lo sconforto della plebe e dell'esercito per la perdita di Romolo l'assicurazione della sua immortalità

[17] Nel frattempo, tra i senatori, era in pieno svolgimento una lotta febbrile per la gestione del potere; non si era però ancora giunti a candidature individuali perché nel nuovo popolo non c'era nessuna figura particolarmente di spicco: si trattava di uno scontro di diverse fazioni all'interno delle classi

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Livio, Ab urbe condita: Libro 39; 06 - 10
Livio, Ab urbe condita: Libro 39; 06 - 10

Latino: dall'autore Livio, opera Ab urbe condita parte Libro 39; 06 - 10

Oriundi ab Sabinis, ne quia post Tati mortem ab sua parte non erat regnatum, in societate aequa possessionem imperii amitterent, sui corporis creari regem volebant: Romani veteres peregrinum regem aspernabantur

In variis voluntatibus regnari tamen omnes volebant, libertatis dulcedine nondum experta

Timor deinde patres incessit ne civitatem sine imperio, exercitum sine duce, multarum circa civitatium inritatis animis, vis aliqua externa adoriretur

Et esse igitur aliquod caput placebat, et nemo alteri concedere in animum inducebat

Ita rem inter se centum patres, decem decuriis factis singulisque in singulas decurias creatis qui summae rerum praeessent consociant
I cittadini di origine sabina, dopo la morte di Tito Tazio, non avevano più avuto un loro re, così, nel timore di dover rinunciare alla spartizione del potere pur continuando a godere degli stessi diritti politici, volevano che venisse eletto un re della loro etnia; ma i Romani di vecchia data rifiutavano l'idea di avere un re forestiero

Pur nella pluralità di vedute, tutti volevano ugualmente essere sottoposti all'autorità di un monarca: infatti non avevano ancora assaporato il dolce piacere della libertà

Poi i senatori cominciarono a preoccuparsi seriamente, pensando che la città priva di un governo e l'esercito privo di un comandante in campo rischiassero un qualche attacco da fuori, visto che si trovavano in mezzo a una serie di vicini particolarmente maldisposti nei loro confronti

Erano quindi tutti d'accordo sulla necessità di avere qualcuno a capo, ma nessuno aveva in animo di rinunciare a favore dell'altro

Così i cento senatori decidono di governare collegialmente: creano dieci decurie e da ognuna di esse traggono un rappresentante destinato a gestire l'amministrazione dello stato
Decem imperitabant: unus cum insignibus imperii et lictoribus erat: quinque dierum spatio finiebatur imperium ac per omnes in orbem ibat, annuumque interuallum regni fuit

Id ab re quod nunc quoque tenet nomen interregnum appellatum

Fremere deinde plebs multiplicatam seruitutem, centum pro uno dominos factos; nec ultra nisi regem et ab ipsis creatum videbantur passuri

Cum sensissent ea moveri patres, offerendum ultro rati quod amissuri erant, ita gratiam ineunt summa potestate populo permissa ut non plus darent iuris quam detinerent

Decreuerunt enim ut cum populus regem iussisset, id sic ratum esset si patres auctores fierent
Governavano, quindi, in dieci, anche se uno solo aveva le insegne ed era scortato dai littori; il potere di ciascuno di essi durava cinque giorni, poi passava a rotazione a tutti gli altri; si trattò di un intervallo di un anno

Siccome intercorse tra due regni, fu chiamato interregno, termine ancor oggi in uso

Ma allora la plebe cominciò a lamentare l'aggravarsi del suo rapporto di sudditanza, visto che al posto di un padrone adesso gliene toccavano cento; era chiaro che avrebbero al massimo sopportato un re e questo eletto secondo le loro preferenze

Quando i senatori si resero conto dell'andazzo, pensarono che sarebbe stato bene offrire spontaneamente ciò che era destino avrebbero perso; e così si guadagnarono il favore popolare concedendo il potere supremo, senza però elargire più prerogative di quante ne mantennero per sé

Infatti decretarono che il popolo avrebbe eletto il re, ma la nomina sarebbe stata valida solo dopo la loro ratifica

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Livio, Ab urbe condita: Libro 21; 31-40

Latino: dall'autore Livio, opera Ab urbe condita parte Libro 21; 31-40

Hodie quoque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta: priusquam populus suffragium ineat, in incertum comitiorum euentum patres auctores fiunt

Tum interrex contione advocata, 'Quod bonum, faustum felixque sit' inquit, 'Quirites, regem create: ita patribus visum est

Patres deinde, si dignum qui secundus ab Romulo numeretur crearitis, auctores fient'

Adeo id gratum plebi fuit ut, ne victi beneficio viderentur, id modo sciscerent iuberentque ut senatus decerneret qui Romae regnaret

[18] Inclita iustitia religioque ea tempestate Numae Pompili erat

Curibus Sabinis habitabat, consultissimus vir, ut in illa quisquam esse aetate poterat, omnis divini atque humani iuris
Ancor oggi, quando si votano le leggi e si eleggono i magistrati, viene esercitato questo diritto, anche se ormai privato della sua importanza: i senatori anno la loro ratifica prima che il popolo vada alle urne e quando non si conosce ancora l'esito del voto

In quell'occasione, il sovrano in carica convocò l'assemblea e disse: La fortuna, la prosperità e la felicità possano assisterci; quiriti, sceglietevi un re, questo è il volere dei senatori

E se chi eleggerete sarà degno di esser chiamato successore di Romolo, in quel caso vogliano confermare la vostra scelta

La proposta fu talmente gradita al popolo che, per non sembrare da meno nella generosità, si limitò a decidere e a ordinare che fosse il senato a stabilire chi doveva regnare a Roma

[18] In quel periodo Numa Pompilio godeva di grande rispetto per il suo senso di giustizia e di religiosità

Viveva a Cures, in terra sabina, ed era esperto, più di qualsiasi suo contemporaneo, di tutti gli aspetti del diritto divino e di quello umano
Auctorem doctrinae eius, quia non exstat alius, falso Samium Pythagoram edunt, quem Seruio Tullio regnante Romae centum amplius post annos in ultima Italiae ora circa Metapontum Heracleamque et Crotona iuvenum aemulantium studia coetus habuisse constat

Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset, quae fama in Sabinos

Aut quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem discendi excivisset

Quoue praesidio unus per tot gentes dissonas sermone moribusque pervenisset

Suopte igitur ingenio temperatum animum virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum, quo genere nullum quondam incorruptius fuit
C'è chi sostiene, in assenza di altri nomi, ch'egli fosse debitore della propria cultura a Pitagora di Samo; la tesi è però un falso perché è noto a tutti che fu durante il regno di Servio Tullio (cioè più di cento anni dopo) e nell'estremo sud Italia - nei dintorni di Metaponto, Eraclea e Crotone - che Pitagora si circondò di gruppi di giovani ansiosi di conoscere a fondo le sue dottrine

E da quei lontani paesi, pur ammettendo che Pitagora fosse vissuto nello stesso periodo, la sua fama come avrebbe potuto raggiungere i Sabini

E in che lingua comune avrebbe potuto indurre qualcuno a farsi una cultura con lui

E sotto la scorta di chi un uomo avrebbe potuto compiere da solo quel viaggio attraverso così tanti popoli diversi per lingua e usanze

Per tutti questi motivi sono incline a credere che Numa fosse spiritualmente portato alla virtù per una sua naturale disposizione e che la sua cultura non avesse niente a che vedere con insegnamenti di stranieri, ma dipendesse dall'austera e severa educazione degli antichi Sabini, il popolo moralmente più puro dell'antichità

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Latino: dall'autore Livio, opera Ab urbe condita parte Libro 35; 06 - 10

Audito nomine Numae patres Romani, quamquam inclinari opes ad Sabinos rege inde sumpto videbantur, tamen neque se quisquam nec factionis suae alium nec denique patrum aut civium quemquam praeferre illi viro ausi, ad unum omnes Numae Pompilio regnum deferendum decernunt

Accitus, sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque deos consuli iussit

Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium fuit, deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit

Augur ad laevam eius capite uelato sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens quem lituum appellarunt
Non appena i senatori romani sentirono il nome di Numa, si resero conto che, con un re proveniente dalla loro etnia, l'ago della bilancia politica si sarebbe spostato verso i Sabini; ciò nonostante, visto che nessuno avrebbe osato preferire a quell'uomo se stesso, uno della propria fazione o qualche altro senatore o privato cittadino, decidono all'unanimità di affidare il regno a Numa Pompilio

Convocato a Roma, egli ordinò che, così come Romolo solo dopo aver tratto gli auspici aveva fondato la sua città e ne aveva assunto il governo, allo stesso modo, anche nel suo caso, venissero consultati gli dèi

Quindi, preceduto da un augure (cui, da quella circostanza in poi, questa funzione onorifica rimase permanentemente una delle sue attribuzioni ufficiali), Numa fu condotto sulla cittadella e fatto sedere su una pietra con lo sguardo rivolto a meridione

L'augure, a capo coperto e reggendo con la destra un bastone ricurvo e privo di nodi il cui nome era lituus, prese posto alla sua sinistra
Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; signum contra quo longissime conspectum oculi ferebant animo finiuit; tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, ita precatus est: 'Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium cuius ego caput teneo regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quod feci'

Tum peregit verbis auspicia quae mitti vellet

Quibus missis declaratus rex Numa de templo descendit

[19] Qui regno ita potitus urbem novam conditam vi et armis, iure eam legibusque ac moribus de integro condere parat
Quindi, dopo aver abbracciato con uno sguardo la città e le campagne intorno, invocò gli dèi e divise la volta del cielo, da oriente a occidente, con una linea ideale, specificando che le regioni a destra erano quelle meridionali e quelle di sinistra le settentrionali; poi fissò mentalmente, nella parte di fronte a sé, un punto di riferimento il più lontano a cui potesse giungere con lo sguardo, quindi, fatto passare il lituus nella mano sinistra e piazzata la destra sulla testa di Numa, rivolse questa preghiera: O Giove padre, se è volontà del cielo che Numa Pompilio, qui presente e del quale io sto toccando la testa, sia re di Roma, dacci qualche segno manifesto entro i limiti che io ho or ora tracciato

Poi specificò gli auspici che voleva venissero inviati

E quando questi apparvero, Numa fu dichiarato re e poté scendere dalla collina augurale

[19] Roma era una città di recente fondazione, nata e cresciuta grazie alla forza delle armi: Numa, divenutone re nel modo che si è detto, si prepara a dotarla di un sistema giuridico e di un codice morale (fondamenti di cui fino a quel momento era stata priva)

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Quibus cum inter bella adsuescere videret non posse - quippe efferari militia animos -, mitigandum ferocem populum armorum desuetudine ratus, Ianum ad infimum Argiletum indicem pacis bellique fecit, apertus ut in armis esse civitatem, clausus pacatos circa omnes populos significaret

Bis deinde post Numae regnum clausus fuit, semel T Manlio consule post Punicum primum perfectum bellum, iterum, quod nostrae aetati di dederunt ut videremus, post bellum Actiacum ab imperatore Caesare Augusto pace terra marique parta
Ma rendendosi conto che chi passa la vita tra una guerra e l'altra non riesce ad abituarsi facilmente a queste cose perché l'atmosfera militare inselvatichisce i caratteri, pensò che fosse opportuno mitigare la ferocia del suo popolo disabituandolo all'uso delle armi; per questo motivo fece costruire ai piedi dell'Argileto un tempio in onore di Giano elevandolo a simbolo della pace e della guerra: da aperto avrebbe indicato che la città era in stato di guerra, da chiuso che la pace regnava presso tutti i popoli dei dintorni

Dal regno di Numa in poi fu chiuso soltanto due volte: la prima al termine della prima guerra punica, durante il consolato di Tito Manlio, la seconda (e gli dèi hanno concesso alla nostra generazione di esserne testimoni oculari) dopo la battaglia di Azio, quando cioè l'imperatore Cesare Augusto ristabilì la pace per mare e per terra

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