tratto dal libro: l'eredità di un giudice
Ripenso a quando ho visto Giovanni e Francesca all'obitorio e davvero stento a distinguere tra realtà è suggestione. Li ricordo distesi su un piano di marmo bianco, liscio, freddo, nella mia mente c'è l'immagine di una sorta di vasca. Giovanni è perfetto, il viso integro, gli occhi chiusi di chi dorme un sonno tranquillo. ricordo le mani, le sue mani piccole, le mani di Giovanni. Francesca no. E' trasformata, non so dire come, ma se non avessi saputo che era lei non l'avrei riconosciuta. Sono stati vestiti, lui ha una cravatta rossa. Ho saputo tempo dopo che a sceglierla ero stato un collega e amico, Francesco Lo Voi.
Non piango, dopo anni continuo a chiedermi come sia riuscita a non fare neppure una smorfia e a restare impassibile. Guardo i corpi composti e i volti tanto amati come se non fossero i loro, la mente cerca di proteggersi da un dolore troppo forte. Voglio solo andar via.
Giovanni e Francesca sono l'uno accanto all'altra anche nella camera ardente al palazzo di giustizia, chiusi nelle bare di mogano, il tocco nero e la toga appoggiati sopra. Fuori dal tribunale, centinaia di palermitani in fila aspettano di entrare per l'ultimo saluto.
Con me ci sono Paolo Borsellino, Anna, la mia sorella maggiore, e Lina, la madre di Francesca. Paolo è invecchiato di colpo. Curvo, lo sguardo di chi ha perso un pezzo di sé e sa che è soltanto l'inizio. Restiamo solo pochi minuti. Stringiamo, intontiti, decine di mani