[CXXXII] [ENCOLPIVS DE ENDYMIONE PVERO: Ipsa corporis pulchritudine me ad se vocante trahebat ad venerem Iam pluribus osculis labra crepitabant, iam implicitae manus omne genus amoris invenerant, iam alligata mutuo ambitu corpora animarum quoque mixturam fecerant Manifestis matrona contumeliis verberata tandem ad ultionem decurrit, vocatque cubicularios et me iubet cato rigari Nec contenta mulier tam gravi iniuria mea, convocat omnes quasillarias familiaeque sordidissimam partem, ac me conspui iubet Oppono ego manus oculis meis, nullisque effusis precibus, quia sciebam quid meruissem, verberibus sputisque extra ianuam eiectus sum Eicitur et Proselenos, Chrysis vapulat, totaque familia tristis inter se mussat, quaeritque quis dominae hilaritatem confuderit |
132 ENCOLPIO A PROPOSITO DEL FANCIULLO ENDIMIONE: Con la sola bellezza del suo corpo che per me era tutto un invito, lei mi attirava al piacere Già sulle nostre labbra fioccavano fitti i baci, già le mani intrecciate si erano avventurate in ogni tipo di carezze amorose, già i nostri corpi allacciati si erano fatti un respiro solo Esasperata da un fiasco tanto palese, la signora si decise alla fin fine a punirmi: e così, chiamati i domestici, dà ordine di appendermi per i piedi e frustarmi Ma non contenta di avermi già umiliato in quel modo, chiama le sue schiave addette al telaio e la feccia della servitù, invitando tutti a coprirmi di sputi Io mi metto una mano sugli occhi e, senza lasciarmi scappare una sola parola di supplica perché sapevo di meritarmelo in pieno, vengo scaraventato fuori in una gragnuola di calci e di sputi Insieme a me cacciano anche la vecchia Proseleno, e Criside si busca la sua bella razione di botte, mentre tutti i servi bisbigliano preoccupati tra loro, chiedendo chi mai abbia fatto uscire dai gangheri la padrona, che un attimo prima così di buon umore |
Itaque pensatis vicibus animosior, verberum notas arte contexi, ne aut Eumolpus contumelia mea hilarior fieret aut tristior Giton Quod solum igitur salvo pudore poterat contingere, languorem simulavi, conditusque lectulo totum ignem furoris in eam converti, quae mihi omnium malorum causa fuerat:Ter corripui terribilem manu bipennem,ter languidior coliculi repene thyrso ferrum timui, quod trepido male dabat usum Nec iam poteram, quod modo conficere libebat;namque illa metu frigidior rigente brumaconfugerat in viscera mille operta rugis Ita non potui supplicio caput aperire,sed furciferae mortifero timore lususad verba, magis quae poterant nocere, fugi Erectus igitur in cubitum hac fere oratione contumacem vexavi: 'Quid dicis, inquam, omnium hominum deorumque pudor |
Così, rinfrancato al pensiero che anche gli altri le avevano prese, nascosi abilmente i segni delle frustate, per evitare che Eumolpo se la ridesse dei miei guai e che Gitone se ne rattristasse Facendo perciò l'unica cosa possibile per salvare la faccia, finsi di non sentirmi bene e, cacciatomi a letto, scatenai tutta la mia rabbia contro l'arnese, unico e vero responsabile di quella serie di disavventure; strinsi in mano tre volte la scure terribile, tre volte temetti il ferro che male la mano reggeva, rammollito com'ero più di un torso di cavolo Né più avrei potuto infligger la pena che pure volevo; infatti l'arnese, spaurito e più freddo del ghiaccio, si era ritirato nella pancia coperto da innumeri grinze Né potei la cappella scoprirgli per dar mano al supplizio,ma beffato dal terrore mortale di tale pendaglio da forca,mi tuffai negli insulti che più lo potevano ferire Appoggiandomi dunque sul gomito, indirizzai a quel contumace un'invettiva grosso modo così: Cos'hai da dire, vergogna di tutti gli uomini e di tutti gli dèi |
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Nam ne nominare quidem te inter res serias fas est Hoc de te merui, ut me in caelo positum ad inferos traheres ut traduceres annos primo florentes vigore, senectaeque ultimae mihi lassitudinem imponere Rogo te, mihi apodixin defunctoriam redde' Haec ut iratus effudi, Illa solo fixos oculos aversa tenebat, nec magis incepto vultum sermone movetur quam lentae salices lassove papavera collo Nec minus ego tam foeda obiurgatione finita paenitentiam agere sermonis mei coepi secretoque rubore perfundi, quod oblitus verecundiae meae cum ea parte corporis verba contulerim, quam ne ad cognitionem quidem admittere severioris notae homines solerent Mox perfricata diutius fronte: 'Quid autem ego, inquam, mali feci, si dolorem meum naturali convicio exoneravi |
Infatti in un discorso serio non è corretto nemmeno nominarti Cosa ti avrei mai fatto perché tu mi trascinassi all'inferno dal paradiso in cui mi trovavo Perché tu mi togliessi il fiore degli anni nel suo primo rigoglio, per mettermi addosso lo sfinimento dell'estrema vecchiaia Avanti, dammi anche solo una prova che almeno ci sei Mentre così mi sfogavo, Volgendo il capo, a terra gli occhi teneva, e la faccia non tradiva ombra di movimento alle mie parole, più di un salice molle o di un papavero dal gambo appassito Eppure, appena finita quella penosa tirata, cominciai a provare rimorso per quanto avevo appena detto e ad arrossire tutto dentro di me, perché, lasciando da parte ogni traccia di pudore, mi ero messo a parlare con quella parte del corpo che la gente a modo non ammette nemmeno di avere Ma poi, dopo una lunga grattata di testa, mi dissi: Ma, in fin dei conti, che male c'è se ho sfogato la mia rabbia con un po' di parolacce |
Aut quid est quod in corpore humano ventri male dicere solemus aut gulae capitique etiam, cum saepius dolet Non et Ulixes cum corde litigat suo, et quidam tragici oculos suos tanquam audientes castigant Podagrici pedibus suis male dicunt, chiragrici manibus, lippi oculis, et qui offenderunt saepe digitos, quicquid doloris habent, in pedes deferunt: Quid me constricta spectatis fronte Catone, damnatisque novae simplicitatis opus Sermonis puri non tristis gratia ridet, quodque facit populus, candida lingua refert Nam quis concubitus, Veneris quis gaudia nescit Quia vetat in tepido membra calere toro Ipse pater veri doctus Epicurus in arteiussit, et hoc vitam dixit habere t(low Nihil est hominum inepta persuasione falsius nec ficta severitate ineptius' |
Non è forse la stessa cosa quando, sempre accanendoci col nostro corpo, imprechiamo contro la pancia o la gola o la testa, quando ci fanno male troppo spesso Ulisse non litiga forse col proprio cuore, e certi personaggi della tragedia non se la prendono con gli occhi, come se quelli potessero starli a sentire I gottosi poi maledicono i piedi, gli artritici le mani, i cisposi gli occhi, mentre quelli che prendono una botta al dito, scaricano la rabbia contro i piedi, come se fosse tutta colpa loro: Perché mai mi squadrate con la fronte accigliata, o Catoni, e condannate un'opera fresca come i tempi che corrono Sorride serena la grazia di uno stile spontaneo, e quello che il popolo fa, chiara la lingua lo dice Chi è all'oscuro del sesso, e chi ignora le gioie di Venere Chi mai nega che i corpi si incendino nel caldo del letto Anche il padre del Vero, il saggio Epicuro, lo ingiunse,e disse che questo è lo scopo finale della vita Negli uomini non c'è nulla di più falso dei pregiudizi, e nulla di più stupido di un'austerità ipocrita |
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[CXXXIII] Hac declamatione finita Gitona voco et: 'Narra mihi, inquam, frater, sed tua fide: ea nocte, qua te mihi Ascyltos subduxit, usque in iniuriam vigilavit, an contentus fuit vidua pudicaque nocte’ Tetigit puer oculos suos, conceptissimisque iuravit verbis sibi ab Ascylto nullam vim factam positoque in limine genu sic deprecatus sum numen aversum: Nympharum Bacchique comes, quem pulcra Dione divitibus silvis numen dedit, inclita paret cui Lesbos viridisque Thasos, quem Lydus adorat septifluus, templumque tuis imponit Hypaepis: huc aedes et Bacchi tutor Dryadumque voluptas, et timidas admitte preces Non sanguine tristi perfusus venio, non templis impius hostis admovi dextram, sed inops et rebus egenis attritus facinus non toto corpore feci Quisquis peccat inops, minor est reus |
133 Finita la declamazione, chiamo Gitone e gli faccio: Ma dimmi un po', caro fratellino, in tutta coscienza: quella notte che Ascilto ti portò via da me, restò sveglio fino a quando riuscì a possederti, oppure si accontentò di una notte vedova e casta Il ragazzino si toccò gli occhi e giurò nel modo più solenne di non aver subito violenza da Ascilto e inginocchiandomi sulla soglia del tempio, rivolsi questa preghiera al dio che mi aveva voltato le spalle: Delle Ninfe e di Bacco compagno, che Dione la bella fece dio delle selve fiorenti, che regni sull'inclita Lesbo e la verde Taso, cui innalza preghiere il Lido dai sette fiumi, e dedica templi in Ipepa, vieni qua, protettore di Bacco e amore delle Driadi insieme, e ascolta una timida prece Non vengo cosparso di sangue funesto, né mai i tuoi templi violai con sacrilega mano, ma misero e messo alle strette, se mai un delitto commisi, non fu con il corpo mio tutto Minore è la colpa di chi pecca per debolezza |
Hac prece, quaeso, exonera mentem culpaeque ignosce minori, et quandoque mihi fortunae arriserit hora, non sine honore tuum patiar decus Ibit ad aras, Sancte, tuas hircus, pecoris pater; ibit ad aras corniger et querulae fetus suis, hostia lactens Spumabit pateris hornus liquor, et ter ovantemcirca delubrum gressum feret ebria pubes' Dum haec ago curaque sollerti deposito meo caveo, intravit delubrum anus laceratis crinibus nigraque veste deformis, extraque vestibulum me iniecta manu duxit [CXXXIV] PROSELENOS ANVS AD ENCOLPIVM: 'Quae striges comederunt nervos tuos, aut quod purgamentum nocte calcasti trivio aut cadaver Nec a puero quidem te vindicasti, sed mollis, debilis, lassus, tanquam caballus in clivo et operam et sudorem perdidisti Nec contentus ipse peccare, mihi deos iratos excitasti' |
Per questo, ti prego, l'animo mio solleva e indulgi a un peccato minore, che, se mai mi sorrida un'ora di buona fortuna, il tuo nume io non lascerò senza onori All'ara tua andranno, o divino, il capro, il padre cornuto del gregge, e vittima ancora lattante, il parto di querula scrofa Nei calici spumeggerà il vino dell'anno, e tre voltedanzando i giovani ebri il giro del tempio faranno Mentre son lì che recito questa preghiera, senza mai togliere gli occhi dal caro estinto tra le gambe, entra nel tempio una vecchia orripilante, coi capelli scarmigliati e una veste nera addosso, che mi abbranca e mi porta fuori dal tempio 134 LA VECCHIA PROSELENO A ENCOLPIO: Che razza di streghe ti hanno mangiato i nervi, o quale schifezza o cadavere hai calpestato nel cuor della notte a un crocicchio Nemmeno con il ragazzo sei riuscito a rifarti ma, molle, fiacco e scoppiato come un ronzino in salita, ci hai rimesso soltanto fatica e sudore E non contento di essere già tu in peccato, hai messo gli dèi anche contro di me |
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Ac me iterum in cellam sacerdotis nihil recusantem perduxit impulitque super lectum, et harundinem ab ostio rapuit iterumque nihil respondentem mulcavit Ac nisi primo ictu harundo quassata impetum verberantis minuisset, forsitan etiam brachia mea caputque fregisset Ingemui ego utique propter mascarpionem, lacrimisque ubertim manantibus obscuratum dextra caput super pulvinum inclinavi Nec minus illa fletu confusa altera parte lectuli sedit aetatisque longae moram tremulis vocibus coepit accusare, donec intervenit sacerdos: 'Quid vos, inquit, in cellam meam tanquam ante recens bustum venistis Utique die feriarum, quo etiam lugentes rident' |
E poi, senza che io facessi alcuna resistenza, mi trascinò di nuovo nella cella della sacerdotessa, mi cacciò sul letto e, dopo aver afferrato una canna dietro la porta, cominciò a darmele di santa ragione, senza che io avessi il coraggio di reagire E se la canna non si fosse rotta quasi subito, diminuendo così la violenza dei colpi, probabilmente quella mi avrebbe fratturato testa e braccia A piagnucolare cominciai invece quando lei si mise a trafficare con l'arnese e, mentre le lacrime mi rigavano il volto, caddi riverso sul cuscino nascondendomi la faccia con la destra Allora anche la vecchia scoppiò a piangere e, sedutasi sull'altra sponda del letto, cominciò a lamentarsi, con voce tremula, di quanto le pesassero tutti i suoi anni, finché non intervenne la sacerdotessa: Che ci fate voialtri ci investì, qui nella mia cella, non l'avrete mica presa per una tomba ancora fresca E per giunta in un giorno festivo, quando ride anche chi dovrebbe piangere |
PROSELENOS AD OENOTHEAN SACERDOTEM PRIAPI: 'O, inquit, Oenothea, hunc adulescentem quem vides, malo astro natus est; nam neque puero neque puellae bona sua vendere potest Nunquam tu hominem tam infelicem vidisti: lorum in aqua, non inguina habet Ad summam, qualem putas esse, qui de Circes toro sine voluptate surrexit’ His auditis Oenothea inter utrumque consedit, motoque diutius capite: 'Istum, inquit, morbum sola sum quae emendare scio Et ne putetis perplexe agere, rogo ut adulescentulus tuus mecum nocte dormiat, nisi illud tam rigidum reddidero quam cornu:Quicquid in orbe vides, paret mihi Florida tellus, cum volo, spissatis arescit languida sucis, cum volo, fundit opes, scopulique atque horrida saxa Niliacas iaculantur aquas |
PROSELENO AD ENOTEA, SACERDOTESSA DI PRIAPO O Enotea le si rivolse la vecchia, questo giovanotto qui è nato davvero sotto una cattiva stella: figurati che non riesce a piazzare la sua mercanzia né agli uomini né alle donne Un disgraziato come questo non l'hai mai visto: al posto dell'affare là sotto, ci ha un'anguilla marinata Per fartela breve, che cosa mi dici di uno che si è alzato dal letto di Circe senza aver goduto Udite queste parole, Enotea prese posto in mezzo a noi e, dopo aver scosso per un bel po' la testa, disse: Io sono l'unica che può guarirlo da questa malattia e per dimostrarvi che non parlo a vanvera, chiedo che questo tuo giovanotto dorma con me una notte, e poi vediamo se non glielo faccio ritornare duro come un corno:Tutto ciò che vedi al mondo, mi si inchina La florida terra se voglio la faccio languire arida, con tutte le linfe essiccate, se voglio, lei spande i suoi beni e rocce selvagge e macigni eruttano acque del Nilo |
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Mihi pontus inertes submittit fluctus, zephyrique tacentia ponunt ante meos sua flabra pedes Mihi flumina parent Hyrcanaeque tigres et iussi stare dracones Quid leviora loquor Lunae descendit imago carminibus deducta meis, trepidusque furentes flectere Phoebus equos revoluto cogitur orbe Tantum dicta valent Taurorum flamma quiescit virgineis extincta sacris, Phoebeia Circe carminibus magicis socios mutavit Ulixis, Proteus esse solet quicquid libet Hic ego callens artibus Idaeos frutices in gurgite sistam, et rursus fluvios in summo vertice ponam' [CXXXV] lnhorrui ego tam fabulosa pollicitatione conterritus, anumque inspicere diligentius coepi 'Ergo, exclamat Oenothea, imperio parete’ detersisque curiose manibus inclinavit se in lectulum ac me semel iterumque basiavit |
A me il mare sottomette gli inerti marosi, e innanzi ai miei piedi gli zefiri fermano taciti i soffi A me obbediscono i fiumi, le tigri d'Ircania, e i draghi immobili a un cenno Perché mai parlare di cose da nulla La mia voce d'incanto fa scendere dal cielo la Luna,e Febo sgomento costringo a mutare il suo corso, volgendo a ritroso i suoi bai furibondi A tanto giungono gli scongiuri L'ardore dei tori si placa, bloccato da riti di vergine, con magici filtri la figlia di Febo che è Circe trasforma i compagni di Ulisse, e Proteo assume l'aspetto che vuole Esperta ch'io sono in quest'arte, sul fondo dei mari trapianto i boschi dell'Ida, e l'acqua dei fiumi sospingo alle vette più alte 135 Rabbrividii atterrito da tutte quelle incredibili promesse e cominciai a osservare con maggiore attenzione la vecchia Avanti esclama Enotea, eseguite i miei ordini e dopo essersi lavata con cura le mani, si chinò sul letto e mi baciò due volte |