Latino: dall'autore Lucrezio, opera De rerum natura parte Libro 05 Parte 01
Quis potis est dignum pollenti pectore carmen condere pro rerum maiestate hisque repertis quisve valet verbis tantum, qui fingere laudes pro meritis eius possit, qui talia nobis pectore parta suo quaesitaque praemia liquit nemo, ut opinor, erit mortali corpore cretus nam si, ut ipsa petit maiestas cognita rerum, dicendum est, deus ille fuit, deus, inclyte Memmi, qui princeps vitae rationem invenit eam quae nunc appellatur sapientia, quique per artem fluctibus et tantis vitam tantisque tenebris in tam tranquillo et tam clara luce locavit confer enim divina aliorum antiqua reperta namque Ceres fertur fruges Liberque liquoris vitigeni laticem mortalibus instituisse; cum tamen his posset sine rebus vita manere, ut fama est aliquas etiam nunc vivere gentis |
Chi può con mente possente comporre un canto degno della maestà delle cose e di queste scoperte O chi vale con la parola tanto da poter foggiare lodi che siano all'altezza dei meriti di colui che ci lasciò tali doni, cercati e trovati dalla sua mente Nessuno, io credo, fra i nati da corpo mortale Infatti, se si deve parlare come richiede la conosciuta maestà delle cose, un dio fu, un dio, o nobile Memmio, colui che primo scoperse quella regola di vita che ora è chiamata sapienza, e con la scienza portò la vita da flutti così grandi e da così grandi tenebre in tanta tranquillità e in tanto chiara luce Confronta, infatti, le divine scoperte che altri fecero in antico E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali; eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose, come è fama che alcune genti vivano tuttora |
at bene non poterat sine puro pectore vivi; quo magis hic merito nobis deus esse videtur, ex quo nunc etiam per magnas didita gentis dulcia permulcent animos solacia vitae Herculis antistare autem si facta putabis, longius a vera multo ratione ferere quid Nemeaeus enim nobis nunc magnus hiatus ille leonis obesset et horrens Arcadius sus, tanto opere officerent nobis Stymphala colentes denique quid Cretae taurus Lernaeaque pestis hydra venenatis posset vallata colubris quidve tripectora tergemini vis Geryonai et Diomedis equi spirantes naribus ignem Thracia Bistoniasque plagas atque Ismara propter aureaque Hesperidum servans fulgentia mala asper, acerba tuens, immani corpore serpens arboris amplexus stirpes |
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura; quindi a maggior ragione ci appare un dio questi per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni, le dolci consolazioni della vita placano gli animi E se crederai che le gesta di Ercole siano superiori, andrai molto più lontano dalla verità Quale danno, infatti, a noi ora potrebbero recare le grandi fauci del leone nemeo e l'ispido cinghiale d'Arcadia E ancora, che potrebbero fare il toro di Creta e il flagello di Lerna, l'idra cinta di un baluardo di velenosi serpenti Che mai, coi suoi tre petti, la forza del triplice Gerione tanto danno farebbero a noi gli uccelli abitatori del lago di Stinfalo e i cavalli del tracio Diomede che dalle froge spiravano fuoco, presso le contrade bistonie e l'Ismaro |
quid denique obesset propter Atlanteum litus pelagique severa, quo neque noster adit quisquam nec barbarus audet cetera de genere hoc quae sunt portenta perempta, si non victa forent, quid tandem viva nocerent nil, ut opinor: ita ad satiatem terra ferarum nunc etiam scatit et trepido terrore repleta est per nemora ac montes magnos silvasque profundas; quae loca vitandi plerumque est nostra potestas at nisi purgatumst pectus, quae proelia nobis atque pericula tumst ingratis insinuandum quantae tum scindunt hominem cuppedinis acres sollicitum curae quantique perinde timores quidve superbia spurcitia ac petulantia quantas efficiunt clades quid luxus desidiaeque |
E il guardiano delle auree fulgide mele delle Esperidi, il feroce serpente, che torvo guatava, con l'immane corpo avvolto intorno al tronco dell'albero, che danno alfine farebbe, lì, presso il lido di Atlante e le severe distese del mare, dove nessuno di noi si spinge, né alcun barbaro s'avventura E tutti gli altri mostri di questo genere che furono sterminati, se non fossero stati vinti, in che, di grazia, nocerebbero vivi In nulla, io credo: a tal punto la terra tuttora pullula di fiere a sazietà, ed è piena di trepido terrore, per boschi e monti grandi e selve profonde; luoghi che per lo più è in nostro potere evitare Ma, se non è purificato l'animo, in quali battaglie e pericoli dobbiamo allora a malincuore inoltrarci Che acuti assilli di desiderio allora dilaniano l'uomo angosciato e, insieme, che timori E la superbia, la sordida avarizia e l'insolenza Quali rovine producono E il lusso e la pigrizia |
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Lucrezio, De rerum natura: Libro 05 Parte 06
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haec igitur qui cuncta subegerit ex animoque expulerit dictis, non armis, nonne decebit hunc hominem numero divom dignarier esse cum bene praesertim multa ac divinitus ipsis iam mortalibus e divis dare dicta suerit atque omnem rerum naturam pandere dictis Cuius ego ingressus vestigia dum rationes persequor ac doceo dictis, quo quaeque creata foedere sint, in eo quam sit durare necessum nec validas valeant aevi rescindere leges quo genere in primis animi natura reperta est nativo primum consistere corpore creta, nec posse incolumem magnum durare per aevum, sed simulacra solere in somnis fallere mentem, cernere cum videamur eum quem vita reliquit |
L'uomo, dunque, che ha soggiogato tutti questi mali e li ha scacciati dall'animo coi detti, non con le armi, non converrà stimarlo degno d'essere annoverato fra gli dèi Tanto più che bene e divinamente egli fu solito proferire molti detti sugli stessi dèi immortali e coi suoi detti rivelare tutta la natura Sull'orme sue io cammino e, mentre seguo i suoi ragionamenti e con le mie parole insegno con che norma tutte le cose siano state create, come debbano in essa permanere e non possano spezzare le possenti leggi del tempo e così anzitutto si è trovato che la natura dell'animo è in primo luogo generata e costituita di corpo che nasce, ed è incapace di durare incolume per gran tratto di tempo, e sono solo simulacri quelli che nei sogni sogliono ingannare la mente, quando ci pare di vedere colui che la vita ha lasciato |
quod super est, nunc huc rationis detulit ordo, ut mihi mortali consistere corpore mundum nativomque simul ratio reddunda sit esse; et quibus ille modis congressus materiai fundarit terram caelum mare sidera solem lunaique globum; tum quae tellure animantes extiterint, et quae nullo sint tempore natae quove modo genus humanum variante loquella coeperit inter se vesci per nomina rerum; et quibus ille modis divom metus insinuarit pectora, terrarum qui in orbi sancta tuetur fana lacus lucos aras simulacraque divom praeterea solis cursus lunaeque meatus expediam qua vi flectat natura gubernans; ne forte haec inter caelum terramque reamur libera sponte sua cursus lustrare perennis, morigera ad fruges augendas atque animantis, neve aliqua divom volvi ratione putemus |
per quel che resta, ora l'ordine della dottrina mi ha condotto a questo punto, che io devo spiegare come il mondo consista di un corpo mortale e insieme ha avuto una nascita; e in quali modi quel concorso di materia abbia costituito le fondamenta di terra, cielo, mare, astri, sole e del globo lunare; poi quali esseri viventi siano sorti dalla terra, e quali non siano nati in alcun tempo e in che modo il genere umano abbia cominciato a usare nei reciproci rapporti il vario linguaggio mediante i nomi attribuiti alle cose; e in quali modi si sia insinuato negli animi quel timore degli dèi, che su tutta la terra consacra e conserva templi, laghi, boschi, altari e simulacri di dèi Inoltre spiegherò con quale forza la natura, che li governa, volga i corsi del sole e i movimenti della luna; perché non ci avvenga di credere che tra cielo e terra questi percorrano liberi, spontaneamente, i corsi perenni per favorire la crescita delle messi e degli esseri viventi, né crediamo che girino secondo qualche disegno divino |
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nam bene qui didicere deos securum agere aevom, si tamen interea mirantur qua ratione quaeque geri possint, praesertim rebus in illis quae supera caput aetheriis cernuntur in oris, rursus in antiquas referuntur religiones et dominos acris adsciscunt, omnia posse quos miseri credunt, ignari quid queat esse, quid nequeat, finita potestas denique cuique qua nam sit ratione atque alte terminus haerens Quod super est, ne te in promissis plura moremur, principio maria ac terras caelumque tuere; quorum naturam triplicem, tria corpora, Memmi, tris species tam dissimilis, tria talia texta, una dies dabit exitio, multosque per annos sustentata ruet moles et machina mundi nec me animi fallit quam res nova miraque menti accidat exitium caeli terraeque futurum, et quam difficile id mihi sit pervincere dictis |
Difatti chi bene ha appreso che gli dèi conducono una vita serena, se tuttavia frattanto si chiede stupito in che modo ogni cosa possa svolgersi, specialmente fra quelle cose che sopra il nostro capo si vedono nelle plaghe eteree, nuovamente ricade nelle antiche superstizioni e accetta padroni dispotici, e nella sua miseria li crede onnipotenti, ignorando che cosa possa essere, che cosa non possa, infine in qual modo ciascuna cosa abbia un potere finito e un termine, profondamente confitto Del resto, perché non ti tratteniamo più a lungo con promesse, contempla anzitutto i mari e le terre e il cielo: la loro triplice natura, i loro tre corpi, o Memmio, i tre aspetti tanto dissimili, le tre compagini così connesse, li darà in preda alla rovina un solo giorno e, dopo essersi sostenuta per molti anni, precipiterà l'immane macchina del mondo Né al mio pensiero sfugge quanto alla mente giunga nuova e mirabile cosa la futura rovina del cielo e della terra, e quanto sia per me difficile dimostrar questo con parole |
ut fit ubi insolitam rem adportes auribus ante nec tamen hanc possis oculorum subdere visu nec iacere indu manus, via qua munita fidei proxima fert humanum in pectus templaque mentis sed tamen effabor dictis dabit ipsa fidem res forsitan et graviter terrarum motibus ortis omnia conquassari in parvo tempore cernes quod procul a nobis flectat fortuna gubernans, et ratio potius quam res persuadeat ipsa succidere horrisono posse omnia victa fragore |
come accade se rechi alle orecchie una cosa prima inaudita, ma non puoi sottoporla all'accertamento degli occhi, né metterla fra le mani, per dove la via sicura della persuasione più dritta porta al cuore umano e alla dimora della mente Ma tuttavia parlerò Alle parole darà forse conferma il fatto stesso, e per violento insorgere di terremoti tutte le cose in poco tempo vedrai sconvolte Ma lontano da noi volga questo la fortuna reggitrice, e la ragione piuttosto che il fatto stesso ci persuada che l'universo può inabissarsi vinto, in un fragore di suono orrendo |
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Qua prius adgrediar quam de re fundere fata sanctius et multo certa ratione magis quam Pythia quae tripode a Phoebi lauroque profatur, multa tibi expediam doctis solacia dictis; religione refrenatus ne forte rearis terras et solem et caelum, mare sidera lunam, corpore divino debere aeterna manere, proptereaque putes ritu par esse Gigantum pendere eos poenas inmani pro scelere omnis, qui ratione sua disturbent moenia mundi praeclarumque velint caeli restinguere solem inmortalia mortali sermone notantes quae procul usque adeo divino a numine distent inque deum numero quae sint indigna videri, notitiam potius praebere ut posse putentur quid sit vitali motu sensuque remotum |
Ma, prima che m'accinga a proferire su questo tema fatidiche parole, più santamente e con molto maggiore certezza che la Pizia, la quale parla dal tripode e dal lauro di Febo, molte consolazioni ti appresterò con dotte parole; perché tu, inceppato dalla religione, non abbia per caso a credere che le terre e il sole e il cielo, il mare, gli astri, la luna, debbano durare eterni in virtù di un corpo divino, e non giudichi perciò giusto che come i Giganti paghino il fio per un immane delitto tutti quelli che con la loro dottrina sconvolgono le mura del mondo e vogliono estinguere in cielo il sole splendente, marchiando con discorso mortale cose immortali mentre si tratta di cose che tanto distano dal nume divino, tanto sono indegne d'essere annoverate fra gli dèi, che le crederemmo piuttosto in grado di dare la nozione di ciò che è remoto da moto e da senso vitale |
quippe etenim non est, cum quovis corpore ut esse posse animi natura putetur consiliumque sicut in aethere non arbor, non aequore salso nubes esse queunt neque pisces vivere in arvis nec cruor in lignis neque saxis sucus intesse certum ac dispositumst ubi quicquid crescat et insit sic animi natura nequit sine corpore oriri sola neque a nervis et sanguine longius esse quod si posset enim, multo prius ipsa animi vis in capite aut umeris aut imis calcibus esse posset et innasci quavis in parte soleret, tandem in eodem homine atque in eodem vase manere quod quoniam nostro quoque constat corpore certum dispositumque videtur ubi esse et crescere possit seorsum anima atque animus, tanto magis infitiandum totum posse extra corpus formamque animalem putribus in glebis terrarum aut solis in igni aut in aqua durare aut altis aetheris oris |
E infatti non si può credere che la natura dell'animo e il senno si possano congiungere con un corpo qualsiasi; come non può esistere nel cielo un albero, né nel mare salato nuvole, né possono i pesci vivere nei campi, né esserci sangue nel legno, né succo nei sassi determinato e disposto dove ogni cosa cresca e abbia sede Così la natura dell'animo non può nascere sola, senza il corpo, né esistere lontano dai nervi e dal sangue Se lo potesse, infatti, molto prima la stessa forza dell'animo potrebbe essere nel capo o negli òmeri o in fondo ai talloni e sarebbe solita nascere in qualsiasi parte, ma in fin dei conti rimanere nello stesso uomo e nello stesso vaso Ora, poiché anche nel nostro corpo è fermamente determinato e si vede disposto dove possano esistere e crescere separatamente l'anima e l'animo, tanto più si deve negare che possano durare fuori da tutto il corpo e dalla forma vivente, nelle friabili zolle della terra o nel fuoco del sole o nell'acqua o nelle alte plaghe dell'etere |
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haud igitur constant divino praedita sensu, quandoquidem nequeunt vitaliter esse animata Illud item non est ut possis credere, sedes esse deum sanctas in mundi partibus ullis tenvis enim natura deum longeque remota sensibus ab nostris animi vix mente videtur; quae quoniam manuum tactum suffugit et ictum, tactile nil nobis quod sit contingere debet tangere enim non quit quod tangi non licet ipsum quare etiam sedes quoque nostris sedibus esse dissimiles debent, tenues de corpore eorum quae tibi posterius largo sermone probabo |
Questi dunque non sono dotati di senso divino, giacché non possono essere vivificati da un'anima Questo parimenti non ti è possibile credere, che le sedi sante degli dèi siano in alcuna parte del mondo Sottile, infatti, e di gran lunga remota dai nostri sensi, la natura degli dèi è veduta appena dalla facoltà intellettiva dell'animo; e poiché sfugge al contatto e all'urto delle mani, non deve toccare niente che sia tangibile per noi Toccare infatti non può, ciò che non può essere esso stesso toccato Pertanto anche le loro sedi devono dalle nostre sedi esser dissimili, sottili secondo i loro corpi Te lo proverò più tardi, con copioso discorso |